
Chiesi, al mio vicino di posto, di poter invertire per un attimo le sedute. Fu così che puntai i miei occhi giù, oltre l’oblò. Il Brasile mi mostrava la sua natura folta e selvatica anche dall’alto di un aereo in volo verso il Perù.
Lo walkman rosso con i tasti neri, con la cassetta da 90 minuti, suonava canzoni come Eskimo di Guccini, La canzone del maggio di De Andrè, Clandestino di Manu Chao.
Il primo viaggio lo ricorderai per sempre. Questo ho scoperto esser vero per me, sentivo già lì che sarebbe stato così, forse perché appartengo a quella generazione che poco o niente aveva viaggiato il mondo a vent’anni. Ora puoi andare in vacanza studio ovunque, in Australia, negli Emirati Arabi, ora tutto è più a portata di mano. Ora i genitori si preoccupano se ti vedono troppo chiusa in casa. Provate a ribaltare questo concetto e troverete facilmente la media di pensiero delle famiglie di una piccola città di provincia, vent’anni fa.
Io quel viaggio avevo rischiato, fino alla fine, di non poterlo fare. Chissà questa che si è messa in testa… chissà questa che vorrà fare della sua vita… il ronzio di voci intorno mi accompagnò, mi fortificò. Se avevo superato quegli ostacoli, tutto ormai sarebbe stato in discesa.
Il mio primo viaggio sopra al mondo, via da posti conosciuti e sicuri, lontana da casa, sudato con il lavoro gratuito, scelto grazie ad amicizie, libri, interessi quotidiani, era cominciato. Volavo su un aereo, alle 8:00 del 21 luglio 2001, verso l’emisfero sud di cui avevo tanto letto e ascoltato. Il mio primo viaggio oltre che coincidere con il G8 di Genova, coincideva con un sogno che realizzavo, con la spinta verso altro, verso un centro nevralgico di me, al cuore di scelte che avevo operato anni prima. Volevo vederli, i poveri. Vedere come vivevano e dove. Volevo cercare di dare un senso mio alla parola “povertà”, di uso comune a scuola, nei temi dei compiti in classe, in chiesa, nelle prediche dei preti, nel movimento di associazioni e gruppi che, già prima di Genova, infiammavano il pensiero e l’azione di persone che avevo intorno.
Vero, allora, che il mio primo viaggio lo avrei ricordato per sempre. Perché tutto, ogni minimo particolare di qualcosa che vuoi davvero, poi lo ricordi, soprattutto se hai l’abitudine di scrivere.
Il francese che avevo accanto mi lasciò stare al suo posto, quello accanto al finestrino. Lui, il Brasile, lo aveva visto tante volte. Io invece non ero neanche mai stata a Genova. Io a Genova, ancora, non sono stata. Ma il G8 costrinse me e tanti come me, che a Genova non c’erano stati, ad imparare nomi di vie, di piazze, di palazzi, di angoli suoi.
Di Genova conoscevo De André, Lauzi, Tenco, Conte, Paoli, Endrigo, Fossati, Bindi, Ciampi. Insomma la voce di Genova mi era arrivata chiara, dai dischi che suonavano abitualmente in casa. E leggevo Montale, avevo una raccolta delle sue opere, ce l’ho ancora, tutta sgualcita, sottolineata, ingiallita dal tempo e picchiettata dall’umidità. E c’era quella poesia, stampata sopra al letto, sotto al crocefisso e alla foto con la mia amica Maddalena scattata in una gita a Firenze. “Litania” di Giorgio Caproni, che genovese era d’adozione:
“Genova città intera.
Geranio. Polveriera…
Genova di limone.
Di specchio. Di cannone…
Genova di tufo e sole,
rincorse, sassaiole…
Genova che mi struggi.
Intestini. Carruggi…
Genova di tutta la vita.
Mia litania infinita…”
Genova mi sembrava di conoscerla attraverso parole d’altri che amavo. A Genova, collegai facilmente la terra che osservavo in quel momento dall’alto. Al G8 si giocava una partita: i potenti della terra e l’ultimo dei manifestanti, sembravano desiderare le stesse cose, prendersi gli stessi impegni, scegliere una stessa linea. Sembrava che ci fossero le basi per cambiare qualcosa. Il Brasile, come l’Africa, erano terre al centro di quei giorni, terre verso cui, chi manifestava contro i potenti, volgeva sguardi, attenzioni, proposte, impegni, in quei giorni di luglio a Genova che qualche illuso sperava ancora non si rivelassero violenti come quelli del novembre ’99 a Seattle. I potenti che al G8 si sedevano intorno ai tavoli del summit, comunque non sembravano poi così lontani, così contro, così infastiditi dall’idea di dividere il loro G8 con tante parti sociali, tanti “oppositori”, tanti movimenti. Avevano concesso manifestazioni, aree e zone della città perché si manifestasse pacificamente, per dormire tranquilli in quelle notti. Avremmo imparato presto, ancora una volta, che l’apparenza inganna.
Torno a quel volo, a quel sedile, ai miei occhi puntati sul Brasile, alle immagini in tv del pomeriggio prima. Carlo. Il 21 luglio coincideva anche con quella storia. Io che a Genova non c’ero, mi ci sentivo. A Genova, il pomeriggio prima, in realtà, mi ci ero persa.
Frequentare ambienti ecclesiali era scelta, certo, forse anche un po’ abitudine. Mi ci sentivo bene. C’era chi sceglieva per me. Io dovevo solo limitarmi all’obbedienza e questo era perfetto, mi toglieva il vizio di pensare sempre, continuamente, al male di vivere che ogni tanto, a quindici anni, come a venti, come in qualsiasi altra età si avverte. I miei dubbi, le domande sull’esistenza, sul senso della vita, mi sarei risolta tutto stando sempre un passo indietro a chi, per me, sceglieva passi da compiere verso una certa direzione, passi che in quel momento erano come risposte, forse non esaustive, comunque risposte. Ingiustizia sociale? Povertà? Cosa posso fare io? Vai, lavora tu gratuitamente, manda in missione la parte di denaro che ti spetterebbe, che invece scegli di inviare a chi ha bisogno e sostiene cause buone. Se poi credi in Dio è anche meglio! Il Padre Buono che è nei cieli ti ricompenserà. Se poi credi in Dio e abbracci il suo mistero, vedrai che l’incontro con i poveri ti cambierà il cuore, rinuncerai a te per far spazio all’altro, al fratello bisognoso. I tuoi problemi, le tue miserie, ti appariranno inutili in confronto alla povertà vera.
Vent’anni.
Molto di quello a cui e in cui credevo a vent’anni, è rimasto, come la radice di un continuo desiderio di fronteggiarmi con quel che non trovo giusto ad esempio. Ma non credo più a un modo così chiuso di intendere strade e cammini. Quello è un vestito che non ho più amato indossare e, quando qualcuno ha provato ad infilarmelo ancora, sono scappata, di corsa. Non credo più a risposte pronte, a idee inculcate, a prediche ben fatte, a slogan vuoti che graffiano giusto un attimo la coscienza.
Genova. Pensavo al Brasile, alle comunità sfruttate, e a Genova. Era stata guerra, le immagini scorse sul tg del giorno prima la raccontavano. C’era stato un morto. Moltissimi feriti. E non avevo idea, su quell’aereo, di quanto fossero gravi gli eventi che si erano verificati nella notte. Non ero un’attivista no global, ero lontanissima, mi sentivo lontanissima da quei rivoltosi. Guardando il Brasile, il Rio delle Amazzoni, mi sentivo dalla parte giusta. Così si cambiava il mondo. Prendendo un aereo e andando. Così, in cerca di cose giuste, di una parte da cui stare, costruivo il muro che mi sarebbe servito per salirci sopra e giudicare. Quelli lì, i black bloc, che aveva distrutto tutto, tra quelli un morto era pure normale che ci fosse stato. Pensieri in superficie. E più il Brasile passava sotto di me, più si affievolivano. Mi avvicinavo al territorio atteso, alla terra promessa, alle risposte che cercavo, che avevo cercato. Cos’è la povertà? Quale posto migliore del sud del mondo per capirlo? Avevo rischiato di diventar “zecca”, mi ero salvata in tempo. Avevo idee di sinistra? Certo. Ma non ero una rivoltosa. Per me di sinistra era Cristo, rivoluzionario resistente al passaggio di ogni epoca. E in nome di quel rivoluzionario, viaggiavo. Era facile credere, a vent’anni, alle poche immagini viste di sfuggita il giorno prima, alle prime bugiarde notizie.
Quaranta giorni nel sud del mondo. Vent’anni fa. Niente telefoni cellulari, niente comunicazione con casa. Niente foto istantanee, solo rullini da sviluppare al ritorno. Niente luce, acqua potabile, niente letto per una ventina di giorni, solo sacchi a pelo e una stanza da condividere in parecchi. E poveri, i poveri. Niente scuola. Niente medico. Quarantotto case di fango e paglia a otto ore di cammino da una prima forma di civiltà appena simile in qualcosa a casa, al mio occidente. Pochi giorni di questo e il G8, Genova, Carlo Giuliani, i black bloc, erano già più che scomparsi.
Ritornare a casa poi, coincise quasi con l’attacco alle Torri Gemelle. Anche a voler capire qualcosa di più di Genova, dopo la lontananza e l’assenza, proprio non me ne fu dato il tempo. Mi inseguiva, ormai, l’immagine dell’aereo che entra nella seconda torre e poco dopo il crollo della prima.
Crollavo io, come quelle torri.
Rientrare da un’avventura come quella che avevo vissuto, risistemarmi in panni puliti, in routine di studio, lavoro, non mi era semplice. Così, se per poco più di un mese avevo viaggiato lontano da Genova, dal G8, da Carlo, dalla Diaz e Bolzaneto, ora mi sentivo come chi a Genova c’era stato. Cercavo notizie, era difficile, non avevo internet a casa, i giornali erano pieni d’America, di Afghanistan, di attentati, di strategie, di ipotesi e congetture, piena l’aria dei venti di una nuova guerra imminente.
Avevo conosciuto i poveri del sud del mondo. Erano figli di molta umanità sfruttata, abbandonata. Quella umanità di cui al G8 i manifestanti portavano la voce. Per me ora, all’improvviso, erano volti e nomi. Chi era stato a Genova, alcuni dei tanti, aveva fatto esperienze simili alla mia probabilmente, spinti da ideali e idee distanti dalla mia, ma con una radice forse più comune di quanto riuscissi a immaginare. Ora il sud del mondo si era fatto presenta a Genova. I soprusi del potere si erano abbattuti con violenza su manifestanti inconsapevoli e atterriti da tanta violenza. Così il mondo mi apparve piccolo, molto piccolo e tutto vicino.
Quel che venne dopo, quel che è venuto nei vent’anni a seguire, ha creato in me un solco divisivo tra un prima e un dopo. Tra quello che sono stata e quello che sono. Tra quello in cui credevo e quello in cui credo adesso. Tra il pensare che le cose siano slegate, senza un filo che le leghi insieme, e il pensare che tutto, ogni scelta, abbia più valori, si estenda fino ad incontrare altro di noi e altro di altri.
In questi giorni, lontani venti anni da vent’anni fa, mi sento ancora estranea, ancora su quel volo, con gli occhi rivolti a terre sconosciute, a cose da scoprire, domande da farmi, risposte da cercare altrove. Mi sento ancora estranea, clandestina, una di sinistra e profondamente incoerente con quel tipo di sinistra estrema, che quasi non esiste più se non in sparuti sprazzi e guizzi, che vuole Dio fuori, lontano, inesistente e l’uomo al centro. Se credi in Dio tanto di sinistra non sei no?! Mi sento estranea così, clandestina, sul confine, capace di guardare ancora a quei giorni di Genova come a qualcosa che non sarebbe dovuto accadere. E non temo di dire che ancora cado nella trappola di pensare a Carlo Giuliani come a un violento, perché se era lì se l’è andata a cercare. Guardo la sua foto con l’estintore e se mi fermo a quella finisco anche io per credere a quel piccolo scampolo di realtà che una foto può riportare fedele o anche confondere malignamente.
Vent’anni. Sono due decenni. E vivo ora più di allora dentro a cambiamenti climatici, a rivoluzioni, nella morsa di una pandemia. Mi sfiorano flussi migratori senza precedenti. Li credo lontani, ma sono qui. I potenti sono sempre loro, sempre peggiori, riflessi di idee senza ragione e senza cuore, senza umanità. Oppressori, ora come vent’anni fa. Mi sentivo lontana da Carlo Giuliani, dal movimento no Global, a volte ora ancora più lontana dalle discussioni sul presente e sul futuro del mondo, che dipende dalla scelta di tutti, di ciascuno.
Sono ora una maestra. “I Care”, Don Milani, nella scuola di Barbiana diceva: “Non c’è nulla che sia più ingiusto quanto far parti uguali fra disuguali.” Lo credevano i manifestanti di Genova, lo credevo io, in volo sul mondo, anche se ancora forse non ne avevo coscienza. Lo sento vero ora, ora che niente è cambiato da quel G8, da quello sterminio di diritti, da quell’avanzare di torture e soprusi come non pensavamo potesse ancora accadere.
Io in un G8, poi, mi ci sono trovata, otto anni dopo, a L’Aquila. La stessa storia, più pulita, senza morti, feriti, senza sangue. In una città spaccata, i potenti vennero a costruire i loro confort, a spettacolarizzare il loro potere, a volgere la loro pietà senza anima a una popolazione stremata, che aveva perso casa, figli, padri, sorelle, madri, nipoti, nonni, nonne, amici in un terribile terremoto che aveva fatto crollare un centro storico, molta periferia, e poco aveva lasciato intatto. Mi ricordo che la gente era arrabbiata, rabbiosa, ma che nessuna protesta poteva davvero farsi e generarsi dove già tutto era rotto. Mi ricordo, mi ricordo, mi ricordo. Non ricordo altro che qualcosa che ora mi sembra non serva. Perché tutto e il suo contrario è stato detto e creduto.
Carlo Giuliani è morto, la sua famiglia allargata lo ricorda. Lo ricorda chi c’era. Chi non c’era. Io a Genova non sono ancora stata. Ma che voglia ho di andare. Fuori tempo. Senza pretesa che non sia quella di un fiore da portare, una scuola davanti a cui fermarmi, un quartiere in cui passare, la piazza, la targa di marmo, l’incrocio con una via.
Ricordo la Litania di Caproni, strimpello un De André a caso, nel vuoto che fa il caldo dentro a un pomeriggio di luglio. Divisa tra il ricordo e il non voglio ricordare, tra attese di cambiamento e il ritrovarsi sempre sullo stesso punto, tra sogni di giustizia e il senso di impotenza che nasce dal rivedere quei caschi, quei manganelli, quegli scudi, le camionette, i cassonetti, le pietre, i lacrimogeni, il fumo, la polvere, il rumore di quel che si rompe, un dente, un osso, il grido che viene da quel giorno, da quella notte, eco lontana, forse non troppo.
Il futuro di quel giorno, oggi, è qui. E un po’ di stucco ci lascia, un po’ impotenti ci trova, un po’ invecchiati, un po’ più soli. Divisi. Tra un prima e un dopo. Andati oltre, spesso dimenticandoci di quel che era importante e ci nutriva. Andati oltre la lotta, la polveriera, arrivati o meno a una qualche destinazione. Andati a spasso su altre macerie, che sempre ce ne sono, ormai siamo abituati. Al sud del mondo, al nord, su qualsiasi latitudine ci si trovi. E desiderare, ancora, nonostante il tempo, nonostante i fatti, nonostante il non accaduto, che qualcosa accada, che qualcosa si faccia accadere. Che nessuno muoia più per un diritto leso. Già questo sarebbe tutto.
Vent’anni. Vent’anni fa.