Vent’anni, vent’anni fa.

Chiesi, al mio vicino di posto, di poter invertire per un attimo le sedute. Fu così che puntai i miei occhi giù, oltre l’oblò. Il Brasile mi mostrava la sua natura folta e selvatica anche dall’alto di un aereo in volo verso il Perù.

Lo walkman rosso con i tasti neri, con la cassetta da 90 minuti, suonava canzoni come Eskimo di Guccini, La canzone del maggio di De Andrè, Clandestino di Manu Chao.

Il primo viaggio lo ricorderai per sempre. Questo ho scoperto esser vero per me, sentivo già lì che sarebbe stato così, forse perché appartengo a quella generazione che poco o niente aveva viaggiato il mondo a vent’anni. Ora puoi andare in vacanza studio ovunque, in Australia, negli Emirati Arabi, ora tutto è più a portata di mano. Ora i genitori si preoccupano se ti vedono troppo chiusa in casa. Provate a ribaltare questo concetto e troverete facilmente la media di pensiero delle famiglie di una piccola città di provincia, vent’anni fa.

Io quel viaggio avevo rischiato, fino alla fine, di non poterlo fare. Chissà questa che si è messa in testa… chissà questa che vorrà fare della sua vita… il ronzio di voci intorno mi accompagnò, mi fortificò. Se avevo superato quegli ostacoli, tutto ormai sarebbe stato in discesa.

Il mio primo viaggio sopra al mondo, via da posti conosciuti e sicuri, lontana da casa, sudato con il lavoro gratuito, scelto grazie ad amicizie, libri, interessi quotidiani, era cominciato. Volavo su un aereo, alle 8:00 del 21 luglio 2001, verso l’emisfero sud di cui avevo tanto letto e ascoltato. Il mio primo viaggio oltre che coincidere con il G8 di Genova, coincideva con un sogno che realizzavo, con la spinta verso altro, verso un centro nevralgico di me, al cuore di scelte che avevo operato anni prima. Volevo vederli, i poveri. Vedere come vivevano e dove. Volevo cercare di dare un senso mio alla parola “povertà”, di uso comune a scuola, nei temi dei compiti in classe, in chiesa, nelle prediche dei preti, nel movimento di associazioni e gruppi che, già prima di Genova, infiammavano il pensiero e l’azione di persone che avevo intorno.

Vero, allora, che il mio primo viaggio lo avrei ricordato per sempre. Perché tutto, ogni minimo particolare di qualcosa che vuoi davvero, poi lo ricordi, soprattutto se hai l’abitudine di scrivere.

Il francese che avevo accanto mi lasciò stare al suo posto, quello accanto al finestrino. Lui, il Brasile, lo aveva visto tante volte. Io invece non ero neanche mai stata a Genova. Io a Genova, ancora, non sono stata. Ma il G8 costrinse me e tanti come me, che a Genova non c’erano stati, ad imparare nomi di vie, di piazze, di palazzi, di angoli suoi.

Di Genova conoscevo De André, Lauzi, Tenco, Conte, Paoli, Endrigo, Fossati, Bindi, Ciampi. Insomma la voce di Genova mi era arrivata chiara, dai dischi che suonavano abitualmente in casa. E leggevo Montale, avevo una raccolta delle sue opere, ce l’ho ancora, tutta sgualcita, sottolineata, ingiallita dal tempo e picchiettata dall’umidità. E c’era quella poesia, stampata sopra al letto, sotto al crocefisso e alla foto con la mia amica Maddalena scattata in una gita a Firenze. “Litania” di Giorgio Caproni, che genovese era d’adozione:

“Genova città intera.

Geranio. Polveriera…

Genova di limone.

Di specchio. Di cannone…

Genova di tufo e sole,

rincorse, sassaiole…

Genova che mi struggi.

Intestini. Carruggi…

Genova di tutta la vita.

Mia litania infinita…”

Genova mi sembrava di conoscerla attraverso parole d’altri che amavo. A Genova, collegai facilmente la terra che osservavo in quel momento dall’alto. Al G8 si giocava una partita: i potenti della terra e l’ultimo dei manifestanti, sembravano desiderare le stesse cose, prendersi gli stessi impegni, scegliere una stessa linea. Sembrava che ci fossero le basi per cambiare qualcosa. Il Brasile, come l’Africa, erano terre al centro di quei giorni, terre verso cui, chi manifestava contro i potenti, volgeva sguardi, attenzioni, proposte, impegni, in quei giorni di luglio a Genova che qualche illuso sperava ancora non si rivelassero violenti come quelli del novembre ’99 a Seattle. I potenti che al G8 si sedevano intorno ai tavoli del summit, comunque non sembravano poi così lontani, così contro, così infastiditi dall’idea di dividere il loro G8 con tante parti sociali, tanti “oppositori”, tanti movimenti. Avevano concesso manifestazioni, aree e zone della città perché si manifestasse pacificamente, per dormire tranquilli in quelle notti. Avremmo imparato presto, ancora una volta, che l’apparenza inganna.

Torno a quel volo, a quel sedile, ai miei occhi puntati sul Brasile, alle immagini in tv del pomeriggio prima. Carlo. Il 21 luglio coincideva anche con quella storia. Io che a Genova non c’ero, mi ci sentivo. A Genova, il pomeriggio prima, in realtà, mi ci ero persa.

Frequentare ambienti ecclesiali era scelta, certo, forse anche un po’ abitudine. Mi ci sentivo bene. C’era chi sceglieva per me. Io dovevo solo limitarmi all’obbedienza e questo era perfetto, mi toglieva il vizio di pensare sempre, continuamente, al male di vivere che ogni tanto, a quindici anni, come a venti, come in qualsiasi altra età si avverte. I miei dubbi, le domande sull’esistenza, sul senso della vita, mi sarei risolta tutto stando sempre un passo indietro a chi, per me, sceglieva passi da compiere verso una certa direzione, passi che in quel momento erano come risposte, forse non esaustive, comunque risposte. Ingiustizia sociale? Povertà? Cosa posso fare io? Vai, lavora tu gratuitamente, manda in missione la parte di denaro che ti spetterebbe, che invece scegli di inviare a chi ha bisogno e sostiene cause buone. Se poi credi in Dio è anche meglio! Il Padre Buono che è nei cieli ti ricompenserà. Se poi credi in Dio e abbracci il suo mistero, vedrai che l’incontro con i poveri ti cambierà il cuore, rinuncerai a te per far spazio all’altro, al fratello bisognoso. I tuoi problemi, le tue miserie, ti appariranno inutili in confronto alla povertà vera.

Vent’anni.

Molto di quello a cui e in cui credevo a vent’anni, è rimasto, come la radice di un continuo desiderio di fronteggiarmi con quel che non trovo giusto ad esempio. Ma non credo più a un modo così chiuso di intendere strade e cammini. Quello è un vestito che non ho più amato indossare e, quando qualcuno ha provato ad infilarmelo ancora, sono scappata, di corsa. Non credo più a risposte pronte, a idee inculcate, a prediche ben fatte, a slogan vuoti che graffiano giusto un attimo la coscienza.

Genova. Pensavo al Brasile, alle comunità sfruttate, e a Genova. Era stata guerra, le immagini scorse sul tg del giorno prima la raccontavano. C’era stato un morto. Moltissimi feriti. E non avevo idea, su quell’aereo, di quanto fossero gravi gli eventi che si erano verificati nella notte. Non ero un’attivista no global, ero lontanissima, mi sentivo lontanissima da quei rivoltosi. Guardando il Brasile, il Rio delle Amazzoni, mi sentivo dalla parte giusta. Così si cambiava il mondo. Prendendo un aereo e andando. Così, in cerca di cose giuste, di una parte da cui stare, costruivo il muro che mi sarebbe servito per salirci sopra e giudicare. Quelli lì, i black bloc, che aveva distrutto tutto, tra quelli un morto era pure normale che ci fosse stato. Pensieri in superficie. E più il Brasile passava sotto di me, più si affievolivano. Mi avvicinavo al territorio atteso, alla terra promessa, alle risposte che cercavo, che avevo cercato. Cos’è la povertà? Quale posto migliore del sud del mondo per capirlo? Avevo rischiato di diventar “zecca”, mi ero salvata in tempo. Avevo idee di sinistra? Certo. Ma non ero una rivoltosa. Per me di sinistra era Cristo, rivoluzionario resistente al passaggio di ogni epoca. E in nome di quel rivoluzionario, viaggiavo. Era facile credere, a vent’anni, alle poche immagini viste di sfuggita il giorno prima, alle prime bugiarde notizie.

Quaranta giorni nel sud del mondo. Vent’anni fa. Niente telefoni cellulari, niente comunicazione con casa. Niente foto istantanee, solo rullini da sviluppare al ritorno. Niente luce, acqua potabile, niente letto per una ventina di giorni, solo sacchi a pelo e una stanza da condividere in parecchi. E poveri, i poveri. Niente scuola. Niente medico. Quarantotto case di fango e paglia a otto ore di cammino da una prima forma di civiltà appena simile in qualcosa a casa, al mio occidente. Pochi giorni di questo e il G8, Genova, Carlo Giuliani, i black bloc, erano già più che scomparsi.

Ritornare a casa poi, coincise quasi con l’attacco alle Torri Gemelle. Anche a voler capire qualcosa di più di Genova, dopo la lontananza e l’assenza, proprio non me ne fu dato il tempo. Mi inseguiva, ormai, l’immagine dell’aereo che entra nella seconda torre e poco dopo il crollo della prima.

Crollavo io, come quelle torri.

Rientrare da un’avventura come quella che avevo vissuto, risistemarmi in panni puliti, in routine di studio, lavoro, non mi era semplice. Così, se per poco più di un mese avevo viaggiato lontano da Genova, dal G8, da Carlo, dalla Diaz e Bolzaneto, ora mi sentivo come chi a Genova c’era stato. Cercavo notizie, era difficile, non avevo internet a casa, i giornali erano pieni d’America, di Afghanistan, di attentati, di strategie, di ipotesi e congetture, piena l’aria dei venti di una nuova guerra imminente.

Avevo conosciuto i poveri del sud del mondo. Erano figli di molta umanità sfruttata, abbandonata. Quella umanità di cui al G8 i manifestanti portavano la voce. Per me ora, all’improvviso, erano volti e nomi. Chi era stato a Genova, alcuni dei tanti, aveva fatto esperienze simili alla mia probabilmente, spinti da ideali e idee distanti dalla mia, ma con una radice forse più comune di quanto riuscissi a immaginare. Ora il sud del mondo si era fatto presenta a Genova. I soprusi del potere si erano abbattuti con violenza su manifestanti inconsapevoli e atterriti da tanta violenza. Così il mondo mi apparve piccolo, molto piccolo e tutto vicino.

Quel che venne dopo, quel che è venuto nei vent’anni a seguire, ha creato in me un solco divisivo tra un prima e un dopo. Tra quello che sono stata e quello che sono. Tra quello in cui credevo e quello in cui credo adesso. Tra il pensare che le cose siano slegate, senza un filo che le leghi insieme, e il pensare che tutto, ogni scelta, abbia più valori, si estenda fino ad incontrare altro di noi e altro di altri.

In questi giorni, lontani venti anni da vent’anni fa, mi sento ancora estranea, ancora su quel volo, con gli occhi rivolti a terre sconosciute, a cose da scoprire, domande da farmi, risposte da cercare altrove. Mi sento ancora estranea, clandestina, una di sinistra e profondamente incoerente con quel tipo di sinistra estrema, che quasi non esiste più se non in sparuti sprazzi e guizzi, che vuole Dio fuori, lontano, inesistente e l’uomo al centro. Se credi in Dio tanto di sinistra non sei no?! Mi sento estranea così, clandestina, sul confine, capace di guardare ancora a quei giorni di Genova come a qualcosa che non sarebbe dovuto accadere. E non temo di dire che ancora cado nella trappola di pensare a Carlo Giuliani come a un violento, perché se era lì se l’è andata a cercare. Guardo la sua foto con l’estintore e se mi fermo a quella finisco anche io per credere a quel piccolo scampolo di realtà che una foto può riportare fedele o anche confondere malignamente.

Vent’anni. Sono due decenni. E vivo ora più di allora dentro a cambiamenti climatici, a rivoluzioni, nella morsa di una pandemia. Mi sfiorano flussi migratori senza precedenti. Li credo lontani, ma sono qui. I potenti sono sempre loro, sempre peggiori, riflessi di idee senza ragione e senza cuore, senza umanità. Oppressori, ora come vent’anni fa. Mi sentivo lontana da Carlo Giuliani, dal movimento no Global, a volte ora ancora più lontana dalle discussioni sul presente e sul futuro del mondo, che dipende dalla scelta di tutti, di ciascuno.

Sono ora una maestra. “I Care”, Don Milani, nella scuola di Barbiana diceva: “Non c’è nulla che sia più ingiusto quanto far parti uguali fra disuguali.” Lo credevano i manifestanti di Genova, lo credevo io, in volo sul mondo, anche se ancora forse non ne avevo coscienza. Lo sento vero ora, ora che niente è cambiato da quel G8, da quello sterminio di diritti, da quell’avanzare di torture e soprusi come non pensavamo potesse ancora accadere.

Io in un G8, poi, mi ci sono trovata, otto anni dopo, a L’Aquila. La stessa storia, più pulita, senza morti, feriti, senza sangue. In una città spaccata, i potenti vennero a costruire i loro confort, a spettacolarizzare il loro potere, a volgere la loro pietà senza anima a una popolazione stremata, che aveva perso casa, figli, padri, sorelle, madri, nipoti, nonni, nonne, amici in un terribile terremoto che aveva fatto crollare un centro storico, molta periferia, e poco aveva lasciato intatto. Mi ricordo che la gente era arrabbiata, rabbiosa, ma che nessuna protesta poteva davvero farsi e generarsi dove già tutto era rotto. Mi ricordo, mi ricordo, mi ricordo. Non ricordo altro che qualcosa che ora mi sembra non serva. Perché tutto e il suo contrario è stato detto e creduto.

Carlo Giuliani è morto, la sua famiglia allargata lo ricorda. Lo ricorda chi c’era. Chi non c’era. Io a Genova non sono ancora stata. Ma che voglia ho di andare. Fuori tempo. Senza pretesa che non sia quella di un fiore da portare, una scuola davanti a cui fermarmi, un quartiere in cui passare, la piazza, la targa di marmo, l’incrocio con una via.

Ricordo la Litania di Caproni, strimpello un De André a caso, nel vuoto che fa il caldo dentro a un pomeriggio di luglio. Divisa tra il ricordo e il non voglio ricordare, tra attese di cambiamento e il ritrovarsi sempre sullo stesso punto, tra sogni di giustizia e il senso di impotenza che nasce dal rivedere quei caschi, quei manganelli, quegli scudi, le camionette, i cassonetti, le pietre, i lacrimogeni, il fumo, la polvere, il rumore di quel che si rompe, un dente, un osso, il grido che viene da quel giorno, da quella notte, eco lontana, forse non troppo.

Il futuro di quel giorno, oggi, è qui. E un po’ di stucco ci lascia, un po’ impotenti ci trova, un po’ invecchiati, un po’ più soli. Divisi. Tra un prima e un dopo. Andati oltre, spesso dimenticandoci di quel che era importante e ci nutriva. Andati oltre la lotta, la polveriera, arrivati o meno a una qualche destinazione. Andati a spasso su altre macerie, che sempre ce ne sono, ormai siamo abituati. Al sud del mondo, al nord, su qualsiasi latitudine ci si trovi. E desiderare, ancora, nonostante il tempo, nonostante i fatti, nonostante il non accaduto, che qualcosa accada, che qualcosa si faccia accadere. Che nessuno muoia più per un diritto leso. Già questo sarebbe tutto.

Vent’anni. Vent’anni fa.

Connessioni impensate.

Ho deciso di lasciare i social. La scrittura, almeno la mia, è instabile e attraversa i suoi momenti. Questo è un momento di vuoto, un grande vuoto in cui risuonano echi di vecchie passioni e di antichi desideri che per ora non so e non voglio condividere. Al corso di scrittura ho raccontato di questo allontanamento, di questo recidere un ramo del mio albero. Tra la comprensione di alcuni e la titubanza di molti, ho promesso di continuare a condividere, in questo piccolo spazio tutto mio, i movimenti, gli alti e bassi, che affronta il processo di creazione e scrittura.

Nell’ultima serata del nostro laboratorio di scrittura, per raccontare in breve qualcosa di questo anno “insieme”, ho condiviso un audio che ho registrato personalmente: una canzone di questo 2020, anno di scritture e riscritture, letture e riletture, di canti e poesie. Ci ho sentito dentro qualcosa di me.

Da lì, una persona ne ha fatto un video con immagini di una storia che non conosco, ma che lei ama.

Mi ha fatto un grande regalo. Mi ha mostrato un modo di allacciare cose lontane, almeno in apparenza lontane. Connessioni impensate, ho pensato, quando l’ho visto.

A volte, occorre “prendersi poco sul serio”. Me lo ha scritto Cecilia, nel messaggio che mi ha inviato con il video. Io non so farlo, l’abitudine a prendere tutto di petto mi appesantisce spesso il cuore. Così mi accade anche con la scrittura, spesso bloccata da questa poca attitudine al volo leggero.

Occorre, oggi, dire grazie a questa compagna che mi ha aiutata a leggermi dentro, mettendo quella mia voce incerta su qualcosa di sconosciuto e ricordarmi di non imporre decisioni, di rimanere libera anche e soprattutto rispetto a me stessa, a quello che sento, a quello che vivo e voglio vivere.

Con leggerezza, profondamente, grazie.

https://youtu.be/NyBLGqqD-ik

Filo rosso

Stamattina ho riletto quello che è stato ed è un libro molto importante per me. Mi ha avvicinato al mistero della montagna. Scritto da Reinhold Messner, La montagna nuda è la storia della scalata al Nanga Parbat.

Mentre leggevo, questa storia si è ricollegata con quella di Don Chisciotte, leggendario personaggio, visionario e folle.

C’è un filo rosso che le collega. La visione di una parte di vita che cerchiamo in ogni gesto. La follia di credere che quello che amiamo possa essere raggiunto.

Ho smesso di leggere e ho provato a ridisegnare Don Chisciotte per come lo propose Pablo Picasso e mentre andavo di matita e coraggio, ho sentito di voler appartenere a queste storie. Mi appassiono a cose che non mi riescono, nelle quali fatico, come il disegno, la scrittura, la musica. Pensavo ai risultati scarsi di ogni mezza opera. Forse non è tanto il risultato, quanto il percorso, la spinta, il tentativo di conquistarsi l’orizzonte che un’opera apre, sia un disegno, una scalata, l’impresa impossibile o la più elementare.

Il filo rosso che lega un libro a un altro, una storia a un’altra storia, è quello che tracciamo noi che leggiamo. E quel filo rosso lega un’altra immagine oggi, oltre a due libri.

C’è un insetto, si chiama “effimera”. Vive poche ore, solo il tempo di accoppiarsi e riprodursi. Il suo volo breve è una danza d’amore.Inutile appare quell’insetto. La sua stessa esistenza però afferma che è parte dell’ecosistema, quindi inutile proprio no.

Tutti e tre, Messner, Don Chisciotte e l’Effimera, potrebbero pure sembrare aver compiuto azioni inutili agli occhi di qualcuno. Lo scalare montagne, soprattutto quando non c’è un sempre felice ritorno a casa, diventa in un attimo follia, inutilità, andarsi a cercar rogne, sfidare il destino. E scambiar mulini a vento per giganti è forse non voler vedere il vero, il reale. Mettersi a combatterli risulta un gioco pazzo e senza senso. Che ce ne facciamo di un cavaliere così! Per non dire dell’Effimera, già il nome la descrive. A lei rivolgiamo l’attenzione che merita l’essere che potrebbe pure non esserci.

Filo rosso del destino: un’antica leggenda cinese dice che lo portiamo legato al mignolo e ci farà incontrare chi sposeremo. Ora non c’è Messner, Chisciotte, l’Effimera, all’altro capo del filo che porto legato al mio mignolo. Sono folle, ma non fino a questo punto! È che comprendo come l’inutile mi commuove e muove, mi interroga sul senso del vivere più di ciò che mi occorre materialmente a vivere. L’inutile, effimero, superfluo gioco della bellezza, che mi chiede un passo alla volta di affrontare la montagna, il mulino a vento, la danza d’amore.

Io credo che ogni cosa fatta per sé, se è sincera, fa spazio ad altro e ad altri. Il filo rosso del destino è legarsi agli altri.

Filo rosso di un destino che scopro, un giorno alla volta, snodarsi nel leggero correre del tempo in cui perdo, vinco, rinuncio, muoio, rinasco, provo, riprovo, abbandono e tradisco. Per scoprire me. Niente altro che scoprire me. E legarmi agli altri, lasciare che un destino si compia, con fiducia, che il mio filo si leghi ad altri fili. Seguirlo, con gioia.

Scritture in quarantena

Vorrei scrivere lettere.

A chi ho nel cuore e vive ora più o meno come me.

Vorrei metterci un’onda di mare

Un raggio di sole

Il granello di polvere che trovo ovunque,

sotto il letto,

sul pavimento della cucina,

la briciola del pane caduta dalla tovaglia.

Vorrei scrivere lettere.

Metterci dentro la corda sol della chitarra

che è per me la più bella.

Vorrei scrivere lettere.

Privarle di importanza

saperle raccontatrici di superfluo.

Vorrei scrivere lettere

con dentro l’odore dell’abete rosso dei boschi dolomitici,

l’ho respirato a lungo,

nessun virus potrà farmelo dimenticare.

Vorrei scrivere lettere dal futuro,

col mio amore per te,

ad aspettarti intatto quando il viaggio che hai cominciato tanto tempo fa,

senza di me,

a me ti riporterà.

Usciremo da questi giorni

e niente sarà come prima o forse tutto.

Neanche queste lettere che vorrei scrivere.

E il tempo,

la stella che brilla,

la luna che cresce e cala,

oltre la collina,

indicheranno nuovamente la festa,

l’allegrezza,

la devozione di processioni e messe.

E scrivo allora che tutto manca,

ma che tutto,

inspiegabilmente,

come un miracolo,

è qui.

 

 

Come un giro in altalena

Il tempo della scuola elementare è passato da un pezzo. Credevo di non trovarlo più, di non poterlo più incontrare, di averlo dimenticato. Credevo di non riuscire più a trovare la sua impronta sul mio cammino. In realtà per buona parte della mia vita ho provato a dimenticarlo, ma non si dimentica, non si può dimenticare, nel senso che prima o poi un frammento di qualcosa torna e riaccende la luce. 

Tornare in una scuola da insegnante è stato scoprire che avevo ancora con me un carico di emozioni enorme, infinito.

Sono tornata a scuola un giorno di qualche anno fa, senza sapere come trovare un posto che potessi considerare giusto il più possibile, stando seduta in cattedra o in piedi accanto alla lavagna, o passando tra i banchi, accanto ai bambini. Il mio primo giorno da insegnante non avevo lezioni pronte, non potevo dichiarare e documentare una preparazione attenta e all’altezza del compito, non avevo in tasca parole giuste per buoni insegnamenti da impartire. Con un carico di dolore e fallimenti che era riuscito fino a quel momento a tenermi lontana, sono rientrata in una scuola. Avevo l’idea di dover essere pronta, non lo ero affatto. Non si è mai pronti per quello che poi è davvero importante. Non si è pronti mai a cambiare sguardo, prospettiva, però la vita spesso lo chiede.

Un giorno alla volta ho imparato e disimparato, per poi imparare nuovamente, che forse il posto giusto in assoluto non esiste, ma occorre riconoscere il momento e in quello immergersi. Essere presenti. Tenersi pronti. A questo tendo: al presente della relazione che implica non un solo modo ma infiniti modi, posti, scelte, pensieri, emozioni, lezioni, parole, silenzi, spazi per desideri.

E la verità più vera è che ho incontrato un bambino in quella scuola, la verità è sempre un incontro dal quale, come un gomitolo rotolante, si stende un filo di cui qualcuno tiene il capo, un filo come una strada… l’ho seguita, una strada di bambini e insegnanti, di incontri preziosi che tengo con me.

In questa lontananza forzata mi manca l’esserci, la presenza vera.  Mi mancano i bambini, le colleghe. Mancano alla bambina che ero trent’anni fa, all’adulta che sono ora. 

Sono questi i giorni del’incertezza, che somigliano a un giro in altalena. Tra alti e bassi sogniamo ancora il cielo, la gioia di sorrisi e stupori. Arriveranno, possiamo trovarli pure adesso, in questo fermo immagine, se ne avremo voglia, con entusiasmo e creatività. 

Pinocchio è stato anche un albero.

Per celebrare la giornata dell’albero, ho pensato di disegnare una scena che ho immaginato potesse capitare a Pinocchio. Lui in fondo, prima che un burattino è stato un pezzo di legno e quindi, prima ancora, un albero.

Il mio sconfinato amore per Pinocchio me lo ha fatto pensare e ripensare, disegnare tante volte, oggi ad esempio l’ho immaginato guardare un bambino che cammina sul filo. Magari in un campo, con la corda appesa proprio a due alberi. Lo spia mentre perde l’equilibrio per un attimo e riappoggia il piede appena un passo più avanti. Pinocchio è rapito, ammirato da quei passi folli, sospesi. Il grillo forse suggerisce di passare oltre. Pinocchio però ha davanti a sé la vita com’è. Un passaggio su un filo. Non vuole perdersela. Non vuole rinunciare. Sì, ho una mezza idea di come potrebbe continuare questo episodio, ma non è questo il punto.

Se oggi ho potuto disegnare è grazie agli alberi. E possiamo raccontare ancora Pinocchio grazie agli alberi, quelli da cui è venuta la carta su cui Carlo Collodi lo ha scritto. Dicono anche che proprio Collodi amasse ripararsi sotto una grande quercia, nei pressi di Capannori in provincia di Lucca, una quercia che ha ormai seicento anni. Sotto la sua chioma sembra che lo scrittore trovasse ispirazione. Poi ancora alberi per i fogli dei libri di Pinocchio stampati a milioni fino ai giorni nostri.

Pinocchio stesso è stato prima pezzo di legno, poi grazie all’amore di babbo Geppetto che lo ha creato intagliando, martellando e piallando, è diventato un burattino.

E gli alberi sono protagonisti nella storia: la quercia a cui gli assassini impiccano Pinocchio, o gli alberi su cui lui spera di trovare le monete, vicino al Campo dei miracoli.

Alberi in ogni dove, nella storia, per la storia.

Ne abbiamo tagliati e consumati tanti. Abbiamo un debito di riconoscenza verso il legno, le cortecce, la linfa, le fronde. Abbiamo da ripiantare alberi continuamente, tutti quelli che consumiamo, in un cerchio di vita continuo. Grazie agli alberi c’è aria da respirare, ci sono fuochi per scaldarci e da accendere di notte, insieme ai sogni, c’è carta da scrivere per raccontarci ancora qualcosa, storie di ieri e di oggi. Abbiamo la nostra vita legata agli alberi, anche quando ce ne dimentichiamo. Se una storia ci è stata letta, su fogli di carta eradi certo scritta.

E se invece che radici abbiamo piedi per camminare, se invece di piantarci a terra compiamo passi sospesi a mezz’aria, nonostante ci ritroviamo come funamboli in equilibrio precario su corde tirate da un capo all’altro della vita, noi agli alberi somigliamo, soprattutto quando abbiamo bisogno di aver la testa in aria e radici che ci ricordino le nostre origini, la nostra casa.

Tutti un po’ Pinocchio, tutti un poco alberi, pezzi di legno pronti a diventar carne. Il legno è già carne. Pinocchio è già bambino.

A Liliana Segre

Non è servito leggere Anna Frank, Primo Levi, Etty Hillesum. Parlo alla mia generazione, alla classe ’81. Eppure a scuola abbiamo letto le loro storie, anche come libri per le vacanze delle estati, quelle che non torneranno più. C’è una parte della mia generazione che odia Liliana Segre, senatrice sopravvissuta al lager e a quel che è stato prima, a quello che è venuto dopo. Quelli che hanno tra i trenta e i quaranta, che hanno letto senza aver capito. Appartengo a quella generazione, non a quelle idee. Leggere commenti contro Liliana Segre, contro la sua scorta, mi fa pensare che non serve leggere se poi la vita scorre su altri binari. Eppure, credo ancora nei libri, nelle storie, nelle testimonianze. Possono leggerli i bambini, i ragazzini, possiamo leggerglieli a voce alta quei libri, costruire con loro idee di futuro reali, di un futuro di impegno nella difesa di uno stato di diritto in cui se uno è in pericolo, va difeso. Se non fosse servito, forse servirà. Non arrendiamoci.
“Nella pancia della balena” è il blog che ho aperto e che non voglio chiudere, perché ho bisogno di un posto in cui poter esprimere un pensiero così.
Grande, grandissima solidarietà ad una donna che ha vissuto su di sé il male che l’uomo può fare.

UN SASSO ALLA VOLTA

«Tira Alessia, dai che è tardi e dobbiamo cenare!»

Succedeva sempre così. Aspettavano che una nonna si affacciasse per richiamarli e dovevano correre, per non lasciare il gioco in sospeso e provare comunque a rientrare in casa senza fare troppo tardi e poter uscire di nuovo, la sera, almeno fino alle dieci, quando la sirena del cementificio poco distante suonava il cambio turno e loro sapevano che il giorno era finito davvero.

Vivevano in un quartiere costruito a metà degli anni settanta, alla periferia del paese. Intorno solo campi e case di campagna. Era un posto circondato di strade bianche e alberi secolari, intessuto di polvere e memorie.  Le famiglie erano venute ad abitarci una dopo l’altra, occupando tutti gli appartamenti nel giro di un paio d’anni. Operai, casalinghe, nonne e nonni. I figli erano nati tutti lì, cresciuti giocando sotto le finestre, nei giardini, percorrendo le strade intorno per arrivare al fiume senza però mai superare il ponte che lo attraversava, calciando un pallone, inventandosi modi diversi di sfruttare il tempo delle lunghe giornate estive e dei pomeriggi d’inverno dopo i compiti.

Andrea, Giovanni, Alessia, Maria erano vicini di casa, compagni d’avventura. Nei giorni tutti uguali, per loro ne venne uno che avrebbero ricordato, che li avrebbe riportati lì anche se avessero viaggiato lontano per il resto della vita.

Giocavano a campana. Disegnavano il reticolo di numeri con un sasso, sul cemento colorato di rosso. Dovevano lanciarlo al centro di ogni casella e saltare fino a recuperarlo. Contavano, si prendevano in giro ad ogni sbaglio. Era un gioco che conoscevano bene, un’abitudine. Quel pomeriggio Giovanni non era sceso in cortile, non aveva risposto nessuno quando erano andati a chiamarlo. Si chiesero dove fosse, ma continuarono a giocare tutto il pomeriggio. Venne la sera, tornarono a casa, cenarono e si ritrovarono poco dopo in piazza, senza Giovanni. La mamma di uno di loro li chiamò. Pensarono al gelato, pensarono a tutto ma non alla notizia che invece la mamma di Andrea diede a tutti: Giovanni era andato in ospedale, perché avevano scoperto lividi sul suo corpo e nella notte gli era sceso tanto sangue dal naso, tanto da non riuscirlo a fermare.

«Quanto dovrà starci mamma?» chiese Andrea.

«Non lo sappiamo. Nessuno può saperlo. Dovrete avere pazienza e aspettare.»

L’avevano visto il giorno prima, aveva detto di essere stanco e di avere male alla testa, ma erano andati al fiume lo stesso. Era la cosa che preferivano. Scendevano la strada fino al ponte e da lì percorrevano l’argine scosceso. L’acqua poteva arrivare appena alle caviglie quando c’era, il più delle volte era solo un rigagnolo. Allora raccoglievano sassi e prima di fare a gara su chi più lontano li avesse lanciati,  ci costruivano fortezze, castelli, muri e torri che resistevano poco in un equilibrio precario. Anche quel pomeriggio era andata esattamente così.

Tutto però precipitò, senza che loro potessero rendersene conto. E i giochi cambiarono. Giovanni non tornò a casa e il pomeriggio al fiume fu l’ultima immagine che rimase di loro, insieme.

Non giocarono più a campana, era Giovanni che la disegnava con un sasso sul cemento rosso. Se lui non c’era più  non doveva esserci più neanche quel gioco.

Sui tetti salivano ogni sera, all’imbrunire. I lucernai diventavano passaggi, buchi da attraversare per scoprire il cielo. Stavano lassù quando i loro genitori non erano ancora tornati a casa dal lavoro e potevano fare tutto col rischio di venire scoperti, senza essere scoperti mai. Il tempo libero non era vuoto, non era perso.

Crescere è spesso andarsene e magari ritornare ogni tanto. Anche per loro è stato così, ognuno partito per qualche posto del mondo. E tornavano, si ritrovavano. Sui tetti, come da bambini.

Un sasso alla volta sono cresciuti, sassi su sassi anche quando hanno deciso di smettere di tirarli e saltare nella campana per riprenderli e ricominciare il gioco. Un sasso alla volta il gioco è finito, lasciando dentro ad ognuno la domanda dei bambini e anche dei grandi: perché?

Nessuna felicità da quell’estate possono dirla tale e piena.

Se rimpiangono l’infanzia è perché tutto era ancora intero e per tutto questo: per un gioco disegnato sul cemento rosso con un sasso, per il gusto di sfidarsi a fare bene un salto, per un tetto, una stella cadente mai vista prima, un quartiere, le lune crescenti e quelle calanti, per un amico mai rivisto in un’estate interrotta. Per la felicità strappata via, senza un senso accettabile e ricucita a stento. Per le vite strette insieme, come in un nodo inscioglibile. Un nodo come un sasso, rincorso per tanto tempo e poi lasciato a terra, tra i tanti. Un nodo come una domanda senza risposta, lanciata a perdersi in cielo, ma che torna sempre giù.