UN SASSO ALLA VOLTA

«Tira Alessia, dai che è tardi e dobbiamo cenare!»

Succedeva sempre così. Aspettavano che una nonna si affacciasse per richiamarli e dovevano correre, per non lasciare il gioco in sospeso e provare comunque a rientrare in casa senza fare troppo tardi e poter uscire di nuovo, la sera, almeno fino alle dieci, quando la sirena del cementificio poco distante suonava il cambio turno e loro sapevano che il giorno era finito davvero.

Vivevano in un quartiere costruito a metà degli anni settanta, alla periferia del paese. Intorno solo campi e case di campagna. Era un posto circondato di strade bianche e alberi secolari, intessuto di polvere e memorie.  Le famiglie erano venute ad abitarci una dopo l’altra, occupando tutti gli appartamenti nel giro di un paio d’anni. Operai, casalinghe, nonne e nonni. I figli erano nati tutti lì, cresciuti giocando sotto le finestre, nei giardini, percorrendo le strade intorno per arrivare al fiume senza però mai superare il ponte che lo attraversava, calciando un pallone, inventandosi modi diversi di sfruttare il tempo delle lunghe giornate estive e dei pomeriggi d’inverno dopo i compiti.

Andrea, Giovanni, Alessia, Maria erano vicini di casa, compagni d’avventura. Nei giorni tutti uguali, per loro ne venne uno che avrebbero ricordato, che li avrebbe riportati lì anche se avessero viaggiato lontano per il resto della vita.

Giocavano a campana. Disegnavano il reticolo di numeri con un sasso, sul cemento colorato di rosso. Dovevano lanciarlo al centro di ogni casella e saltare fino a recuperarlo. Contavano, si prendevano in giro ad ogni sbaglio. Era un gioco che conoscevano bene, un’abitudine. Quel pomeriggio Giovanni non era sceso in cortile, non aveva risposto nessuno quando erano andati a chiamarlo. Si chiesero dove fosse, ma continuarono a giocare tutto il pomeriggio. Venne la sera, tornarono a casa, cenarono e si ritrovarono poco dopo in piazza, senza Giovanni. La mamma di uno di loro li chiamò. Pensarono al gelato, pensarono a tutto ma non alla notizia che invece la mamma di Andrea diede a tutti: Giovanni era andato in ospedale, perché avevano scoperto lividi sul suo corpo e nella notte gli era sceso tanto sangue dal naso, tanto da non riuscirlo a fermare.

«Quanto dovrà starci mamma?» chiese Andrea.

«Non lo sappiamo. Nessuno può saperlo. Dovrete avere pazienza e aspettare.»

L’avevano visto il giorno prima, aveva detto di essere stanco e di avere male alla testa, ma erano andati al fiume lo stesso. Era la cosa che preferivano. Scendevano la strada fino al ponte e da lì percorrevano l’argine scosceso. L’acqua poteva arrivare appena alle caviglie quando c’era, il più delle volte era solo un rigagnolo. Allora raccoglievano sassi e prima di fare a gara su chi più lontano li avesse lanciati,  ci costruivano fortezze, castelli, muri e torri che resistevano poco in un equilibrio precario. Anche quel pomeriggio era andata esattamente così.

Tutto però precipitò, senza che loro potessero rendersene conto. E i giochi cambiarono. Giovanni non tornò a casa e il pomeriggio al fiume fu l’ultima immagine che rimase di loro, insieme.

Non giocarono più a campana, era Giovanni che la disegnava con un sasso sul cemento rosso. Se lui non c’era più  non doveva esserci più neanche quel gioco.

Sui tetti salivano ogni sera, all’imbrunire. I lucernai diventavano passaggi, buchi da attraversare per scoprire il cielo. Stavano lassù quando i loro genitori non erano ancora tornati a casa dal lavoro e potevano fare tutto col rischio di venire scoperti, senza essere scoperti mai. Il tempo libero non era vuoto, non era perso.

Crescere è spesso andarsene e magari ritornare ogni tanto. Anche per loro è stato così, ognuno partito per qualche posto del mondo. E tornavano, si ritrovavano. Sui tetti, come da bambini.

Un sasso alla volta sono cresciuti, sassi su sassi anche quando hanno deciso di smettere di tirarli e saltare nella campana per riprenderli e ricominciare il gioco. Un sasso alla volta il gioco è finito, lasciando dentro ad ognuno la domanda dei bambini e anche dei grandi: perché?

Nessuna felicità da quell’estate possono dirla tale e piena.

Se rimpiangono l’infanzia è perché tutto era ancora intero e per tutto questo: per un gioco disegnato sul cemento rosso con un sasso, per il gusto di sfidarsi a fare bene un salto, per un tetto, una stella cadente mai vista prima, un quartiere, le lune crescenti e quelle calanti, per un amico mai rivisto in un’estate interrotta. Per la felicità strappata via, senza un senso accettabile e ricucita a stento. Per le vite strette insieme, come in un nodo inscioglibile. Un nodo come un sasso, rincorso per tanto tempo e poi lasciato a terra, tra i tanti. Un nodo come una domanda senza risposta, lanciata a perdersi in cielo, ma che torna sempre giù.

Sulla scrivania

Ho una storia. Dall’inizio al finale. Stesa su sessanta fogli.

Ho un dilemma: che farne?

Ho una tentazione: la pubblico senza dirlo a nessuno, faccio da sola.

L’hanno letta in tre. Hanno tirato via gli errori che a me, nelle numerose riletture, mi sono sfuggiti.

In quanto tempo l’ho scritta? In due anni.

Mi piace? Tanto, tantissimo.

Ma vuoi fare o no la scrittrice? Questa domanda, oggi, mi fa sorridere. Da questa domanda dipende buona parte degli ultimi quindici anni della mia vita. E non ho risposta, o meglio, ho una risposta che cambia spesso. Ero ossessionata dall’idea di voler fare la scrittrice. Ora amo scrivere, ma questo mi basta, mi basta il piacere, mi resta il piacere della scrittura.

E allora perché, mi chiedo, non so cosa fare adesso? Non so se buttarla là, tra le storie di tanti, troppi, auto-pubblicate, o trattenerla, chiuderla nel cassetto, o ancora mandarla a un editore, tentare gli stessi passi, bussare a porte troppe volte rimaste chiuse.

I fogli riposano, i dubbi avanzano.

 

 

 

 

 

 

 

 

Quando tutto inizia. DeA Planeta e un nuovo premio letterario, molto interessante.

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Quando qualcuno mi chiede cosa faccio nella vita, mi viene naturale rispondere che scrivo. Questo lascia negli occhi degli interlocutori un punto di domanda enorme. Hanno ragione a chiedersi se sono pazza o meno. In fondo ho scritto e pubblicato per un concorso un solo libro! Quanto ha venduto? Credo un migliaio di copie più o meno, tra libro e ebook. Quindi poco, esperienza circoscritta a un desiderio, tra l’altro ormai è un’avventura abbastanza datata perché iniziata dieci anni fa, perché è dieci anni fa che mi sono messa a lavorare su questa storia e sono riuscita a pubblicarla più di un anno fa.

Nela vita sono una maestra, precaria, con la passione per la lettura, e che ha scritto un piccolo romanzo per raccontare una storia d’amore, senza troppo preoccuparsi di seguire determinati canoni così da provare ad entrare in un circuito, presentarsi magari ad una casa editrice e provare ad essere scelta.

Quando una passione inizia, tutto comincia, o ricomincia. E quando tutto inizia non ti importa di seguire le regole, di fare bene le cose. Il tuo entusiasmo basta. E ogni volta che rileggo qualche pagina di questo libro torno ad essere quella che ero in quel momento in cui, china su un foglio, scrivevo di Marta e Luca, i due protagonisti, del loro amore ritrovato, per poco, ma pieno e in qualche modo straordinario, perché rompe le abitudini e colora di una nuova sfumatura le loro vite.

E io nei libri ho cercato sempre una sfumatura di colore in più.

Quando tutto inizia le sfumature possibili sono infinite, e vorrei ricominciare a scrivere con questa capacità di sentire che è davvero così. Non ci riesco, per ora, così non riesco più a immaginare per me il momento in cui avrò un nuovo romanzo mio pronto per iniziare una nuova strada, un nuovo percorso. Ed è un peccato questo, ne sono convinta, lo penso da ieri, da quando ho letto il bando del premio letterario Dea Planeta. Se avessi un manoscritto nel cassetto non esiterei a inviarlo.

Avere un inizio, un nuovo inizio tra le mani, in testa, nel cuore, per provare ancora a vedere, negli occhi delle persone con cui mi capita di parlare, il punto interrogativo o l’esclamazione sottointesa di chi si sente dire “io scrivo” e sentirmi aliena, strana, pazza, una che crede in un desiderio e oltre a quel che è si spinge a vedere cosa potrebbe essere, diventare.

Il mio primo libro mi ha insegnato la bellezza dell’inizio, di ogni inizio. Magari, un giorno…

 

Un regalo per la vita

Sono qui per raccontarvi e condividere un momento bello e importante che ho vissuto qualche giorno fa. Sono ancora a bocca aperta…

Suonano alla nostra casa rossa.
Apro.
– Ciao Chiara.
– Ciao!
– Ciao. Sono Viola. Mi ha dato il tuo indirizzo una ragazza che ti conosce. Ho letto il tuo libro.
– Vieni, entra.
– No, vado di fretta, volevo solo dirti grazie. Il tuo libro me lo ha regalato un’amica che lo aveva letto. In questo racconto mi è sembrato di ripercorrere quello che è successo un mese fa a me. E ora io soffro, ma spero che presto non soffrirò più.

Io, senza parole. Per questo gesto spontaneo. Lei ha diciassette anni, tutta la vita davanti, e sa cosa sia innamorarsi. Le ho letto negli occhi la bellezza di essere al principio di tutto, e quanto sia anche difficile la sua età. Bellezza e nodi da sciogliere ha incontrato e è venuta a dirmelo. Il regalo del giorno per me. No, mi correggo, è un regalo per tutta la vita.

 

Le recensioni inutili, anzi dannose.

Leggere una recensione cosi è stato difficile.

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Non so chi l’abbia scritta. Non si dovrebbe sconsigliare un libro in una recensione. Si dovrebbe dire cosa ci e piaciuto e cosa no, analizzarlo. Mai sconsigliarlo. I libri ci piacciono, non ci piacciono, ma non sono inutili.

Mi spiace non poter controbattere, soprattutto mi spiace aver letto che questa lettrice o lettore sia felice di due euro risparmiati, invece di essere grata per aver letto gratuitamente una storia. Che non gli sia piaciuta mi dispiace ma è una cosa che accade. Non leggiamo libri perché ci piacciono, leggendoli scopriremo se ci piacciono, ma prima leggiamo libri, non fermiamoci a gusti altrui.

Una recensione inutile e dannosa. Ormai per me e per la mia storia c’è poco da fare o dire, ma vorrei che queste mie parole raggiungessero il recensore sconosciuto e lo educhino per i prossimi libri, i prossimi sogni che incontrerà. Lo educhino ad essere gentile anche quando un libro non gli piacera, a non fargli terra bruciata intorno.

I libri sono sempre utili. Le recensioni pure. Se sono vere recensioni. Ormai i leoni da tastiera si credono dei dell’Olimpo. Dovrebbero però imparare a recensire. Oppure cadono giù. In un attimo.

Lasciare che, chi ha bisogno, chieda.

Chi usa i flussi migratori per spaventare la gente è un truffatore. Convincere la gente che questo paese è in difficoltà per colpa dei poveri è da truffatori, bugiardi. Non serve scriverlo, e questo è un concetto espresso in una maniera troppo semplicistica. È così. Lo so. Ma io mi bagno nell’Adriatico, dove i barconi negli anni novanta navigavano dall’Albania fino alle coste italiane e sembrava un’invasione. Era gente in fuga, che però non rubava il posto a qualcuno. Questo è semplice, questo è quello che è accaduto. È quel continua ad accadere. Io non mi sento italiana e il mondo l’ho girato poco, forse troppo poco per sentire di poter appartenere a qualche altro paese. Su un barcone non ho dovuto salirci, non ho dovuto navigare, anche se il lavoro scarseggia, se sono precaria, se a volte è dura, durissima restare. Ma non cedo al potere che grida e mette poveri contro poveri, lavoratori contro lavoratori, che usa gli ultimi per fare la sua propaganda. Non sono orfana di civiltà.

Penso al vangelo di qualche giorno fa, mi sembra possa aiutarmi a spiegare meglio quel che voglio dire. Penso alle due donne bisognose di un miracolo di vita. Gesù parte per salvarne una, la prima, figlia di Giairo, un uomo giusto. Ha dodici anni lei. Ma sulla strada ne incontra un’altra. Ha fretta Gesù, ma si ferma perché riconosce un tocco: un’emorroissa, reietta e sola, che nessuno poteva toccare, incontrare, tocca il suo mantello. Una donna che nessuno può toccare, che non conosce tocchi di mani d’altri per colpa della sua malattia, sa toccare in un modo così speciale che Gesù riesce a riconoscerla tra tanti. Un prete mi diceva sempre che nel vangelo i dettagli sono importanti, e quel tocco è davvero un dettaglio importante! È un segno, racconta di quanto amore può dare chi ne ha bisogno. Essere in cerca d’amore è già amare, profondamente desiderare.

Si ferma Gesù, a guarire l’emorroissa, così fa tardi e la bambina intanto muore. Tutti intorno giudicano, forse pensano che se non si fosse fermato sarebbe arrivato prima e la bambina sarebbe ancora viva. È guerra tra i poveri questa, perché entrambe hanno bisogno, a prescindere da origini e casta sociale, ma agli occhi degli uomini la bambina è più innocente, più degna di un miracolo. Se si impedisse a chi ha bisogno di chiedere, se scegliessimo chi ha diritto di essere aiutato, se decidessimo chi ha davvero bisogno, eccola la tentazione più grande e pericolosa… Gesù risponde, a modo suo, un modo unico: salva la donna, la guarisce, e richiama alla vita la bambina. Insegna che il dolore è unico, non sceglie, ha abbastanza amore per tutti. È solo un racconto vecchio di secoli e Dio sembra lontano, per parecchi non esiste nemmeno. Ma se fossimo capaci di vedere, di capire, di avere compassione! Se avessimo occhi aperti, cuori generosi, tutti troverebbero posto, tutti vivrebbero. Ora, il miracolo non spetta a noi, a noi tocca essere quella folla a volte, a volte quella bambina, altre volte l’emorroissa. Dovremo a volte lasciare che chi ha bisogno possa chiedere, essere una folla più comprensiva. Perché avremo bisogno, un giorno, forse, di un miracolo per noi o per qualcuno che amiamo e sarebbe bello riceverlo, lasciare che accada, preparare una terra in cui i miracoli possano accadere. Ai migranti, che vengono per mare, da terra a terra, lasciare spazio, speranza, concedere vita.

I regali, quelli belli.

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La gardenia ha aperto proprio oggi il suo primo fiore. Il rito di ogni anno, in questa occasione, è rileggere il brano del libro “Incontro d’amore in un paese in guerra”, per ricordare che il mio fiore preferito è protagonista di uno dei racconti per me piu belli. Lo ripropongo, oggi che è il mio compleanno, tra auguri ricevuti e altri attesi e non ancpra arrivati, o che forse mai arriveranno. Sento che delle ferite di tanta dimenticanza però avra cura questo fiore, così opportuno e così speciale da farmi sorriderr come fossi ancora una bambina. I regali, quelli belli… un fiore, un libro, qualche parola vera. Sono sicura che a chi mi segue qui faro un regalo gradito riproponendo il racconto di Sepulveda. Buona lettura:

“Sono davanti alla tua porta, vestito in modo impeccabile e con un mazzo di gardenie in mano. Ho intenzione di suonare, di attendere qualche secondo per vedere apparire la tua testa nella cornice della porta d’ingresso con un’espressione di cinica sorpresa, perchè sappiamo entrambi che mi stai aspettando. Ho intenzione di entrare, buonasera, come stai, fare il primo passo, il tappeto bianco, la poltrona, un caffè, sigarette turche sul tavolo, lodi per il buon gusto nella scelta dei portacenere e delle abominevoli riproduzioni di Picasso.C’è qualcosa di marziale nel gesto di cercare con l’indice il pulsante nero del campanello, di entrare in contatto con la superficie di bachelite, di premere con una certa sensualità per poi rendersi conto che non si sente alcun suono. Il dito ripete l’operazione un po’ più velocemente, stavolta preme con maggiore forza il campanello, lo tiene schiacciato per qualche secondo, ma non si ode nulla. Deduzione immediata: paranoia dei fili elettrici. Allora indietreggio venti centimetri, mi aggiusto il nodo della cravatta, controllo la simmetria del mazzo di gardenie che iniziano già a dar mostra di instabilità all’interno del loro involucro, e piego le dita della mano destra con un movimento che comincia dalle prime falangi, finchè la mano non adotta una volenterosa posizione a chiocciola. Prendo la rincorsa, o meglio la mia mano indietreggia fino a restare paralizzata da una specie di muraglia d’aria che le impedisce un maggior spostamento, e poi si appresta a colpire la superficie della porta. Quando la mano è a pochissimi millimetri, si blocca, e allora io penso a tutte le possibilità. Può darsi che il rumore imprevisto, toc toc, ti causi un improvviso spavento. La terribile sensazione di pensare a un ospite inatteso, di intuire l’arrivo di un ricordo sepolto già da molto tempo, e la possibilità che tu lasci cadere il vaso di cristallo che sicuramente hai in mano aspettando l’arrivo delle gardenie promesse. Può anche darsi che la mia mano acquisti una forza infinita e che al secondo toc sfondi la porta con il conseguente rumore di schegge di legno sul linoleum, o semplicemente che a causa di manchevolezze dell’impresa edile la porta crolli giù fra le recriminazioni dei tuoi vicini, che a quel punto uscirebbero nel corridoio, nei loro bei pigiami, e imprecando mi ricorderebbero che questa è un’ora di decoroso riposo. In mezzo a tanti cavilli la mia mano trema, è scossa dall’incertezza, mi sembra di intuire nel polso una specie di rictus di spavento che in fondo è anche autocompassione, perchè questo mi accade ogni volta che tento di suonare alla tua porta. Così le gardenie invecchiano in pochi secondi nel loro involucro trasparente, e quando varco la soglia dell’edificio, quella bocca che mi risputa nell’umida solitudine della strada, e mi avvio con la testa sprofondata tra le spalle provando ancora una volta la vergogna della sconfitta, posso sentire chiaramente, lassù, il tuo pianto per le gardenie assenti.”

L. Sepulveda, Lassù qualcuno aspetta delle gardenie.

La fatica dei colori

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1487 km tra Roma e Cinisi. Una lunga strada che, dal 9 maggio 1978 si è fatta di pochi centimetri, quelli che bastano ad unire sui giornali, in tv, nelle pagine web,  nei ricordi e nella memoria della gente, le vite di questi due uomini. Sì, non ho detto le morti, ma ho scritto “le vite di questi due uomini” perché la morte è solo un istante, un momento, un passaggio della loro vita. E le loro vite sono profondamente diverse, così come le maniere di ricordarli sono diverse. Ma c’è un’unica radice da cui sono nati l’uno e l’altro: l’impegno verso il proprio paese, declinato in tante forme.

E gli uomini hanno un destino, misto di fatalità e di scelte precise, incrocio di strade evitate e di altre strade imboccate. Cento passi di Peppino, 55 giorni di Moro, misura e tempo che vanno a coincidere in un giorno di maggio, un giorno che per me, nata nel 1981, è in bianco e nero. Nelle foto dei loro volti, di quelle giornate, dei pezzi di vita che ho cercato con curiosità,  ho trovato il bianco e il nero, nessun altro colore. Gli anni di piombo sono in bianco e nero per chi, come me, non li ha vissuti. Il tempo è passato, quarant’anni non sono pochi, anche se a sentire mia madre e mio padre sono volati in un soffio (e più passa il tempo più sento anche io che tutto è tremendamente veloce). E il tempo si è portato via i colori, lasciando solo sfumature di grigio. Non sono solo le foto, i frammenti di quelle particolari storie, ad essere in bianco e nero. Ma io credo che dovremmo cercare i colori in queste due storie che si intrecciano perché appartengono allo stesso tempo, allo stesso paese, alla stessa storia, la nostra. E cercarne i colori, è imparare nuovamente a vedere i colori. Perché i colori rendono giustizia in ogni memoria, fissano meglio le immagini, lasciano impressioni:  il bianco e nero dell’inchiostro sul foglio delle parole scritte di Moro, il rosso del suo sangue e di quello degli uomini della sua scorta, ad esempio, o il verde e il marrone della terra, quella per cui Peppino si batteva. I colori dei vestiti della gente, della folla che si mosse come impazzita in via Caetani, e pure a Cinisi, dove ogni 9 maggio ci si continua ad incontrare. I colori renderebbero più vive le foto, servirebbero. Quando ricordiamo, cerchiamo i colori, qualsiasi colore e sfumatura. Perché 40 anni fa il loro sangue è scorso e scorre ancora, per renderci più vivi e dovremmo imparare a riconoscerlo, dovremmo rimanerne impressionati. Noi a loro dobbiamo una memoria a colori, vivace, viva, che serva per fare passi in avanti, per colorare la nostra vita, quella delle istituzioni in questo paese stanco e abituato al gretto compromesso.

La fatica dei colori, per rendere giustizia alle storie di due uomini relegati al bianco e nero e pure alla nostra storia.

Scrivo questo perché io mi chiedo come sia possibile vivere in un mondo in bianco e nero. Un paese in cui il grande fratello batte nell’auditel la prima serata dedicata a Aldo Moro è un paese in bianco e nero. E come è possibile vivere in un paese in cui le parole di Peppino Impastato fanno anche oggi meno rumore di quelle di un tweet di un qualsiasi politicante? Mi chiedo come sia possibile accettare di vivere in un paese senza impegno, senza fatica, in cui si è passati dalla bellezza dei colori alla noia del bianco e nero.

Abbiamo bisogno di immaginare i colori. Abbiamo bisogno che Aldo Moro e Peppino Impastato ritrovino i loro colori. E tramandarli, colorarci tutto, raccontarli, farli conoscere. Scavare, leggere le loro parole, perché in quelle è il vero colore. Nelle loro storie le parole è arrivato fino a noi il fondamento di atti di coraggio invidiabili, di cui è facile provare nostalgia, visto i tempi magri in cui viviamo.

Scrivo mentre mi arriva la notizia della morte di un ragazzo, operaio di 19 anni alla Fincantieri di Monfalcone, schiacciato da un blocco di cemento. La strada tra Cinisi e Roma si allunga, arriva in un istante a Monfalcone.

“Niente di quel che è umano ci può essere estraneo.” Aldo Moro.

“Nessuno ci vendicherà; la nostra pena non ha testimoni.” Peppino Impastato.

Sono due frasi che sembrano opposte, eppure lette insieme si appoggiano, si danno forza, si spiegano.

Le parole di Aldo Moro e Peppino Impastato sono piene di  dolore, tenerezza, disperazione, speranza e risuonano fino a lì, fin dentro a quel cantiere e anche in ogni altro luogo in cui c’è bisogno di rivendicare un diritto, di riconoscerlo. Scuotono le nostre coscienze. Dal bianco e nero ai colori per svegliarci dal sonno, dal sogno, per radicarci un po’ di più, grazie all’esempio di altri uomini, nella realtà.